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rivista semestrale

anno XXXVI - terza serie

numero 89

gennaio/giugno 2024

Gian Mario Villalta, Vanità della mente

[ Mondadori, Milano 2011 ]

Il libro con cui Villalta ha vinto il Premio Viareggio 2011 è una composizione di testi inediti e parti di raccolte precedenti, un itinerario che indaga i luoghi d’origine dell’autore, esplorando il dissidio tra la dimensione corporea e quella mentale dell’individuo.

Le quindici sezioni hanno fisionomie stilistiche diverse, dalle liriche prosastiche alle colate di versi cadenzate all’uso del dialetto veneto (Revoltà), modulate su una medesima tonalità di fondo, che è il tratto distintivo dello stile di Villalta: un ritmo che ordina suoni e sintagmi secondo un principio strutturale geometrico, una comune medietà stilistica che sembra impiantare una trasparente architettura ordinatrice, mentale e intellegibile, sulla realtà fisica e corporea.

Il motivo della capacità di una visione ulteriore rispetto a quella sensoriale era già stato affrontato in Vedere al buio (Sossella, 2007), che contiene in nuce gli sviluppi articolati e diversificati di Vanità della mente. Persiste, in questa raccolta, una migrazione continua tra due poli: «la compulsione a esporsi nella realtà», ossia la tendenza o tentazione a vivere corporalmente l’esistenza, fenomeno di cui sono ricche – spesso debordanti – la poesia e la società dagli ultimi decenni a questa parte, e «la certezza che sia del tutto vano» (NdA, p. 156), ossia l’accorgimento che le facoltà mentali e intellettive annientino e rendano vana la contingenza esperibile.

La continua migrazione di significati (il termine «migrazioni» è anche il titolo significativo dell’ultima sezione del libro) consente di osservare in parallelo le caratteristiche della dimensione corporale e di quella mentale, e di accorpare testi tematicamente e cronologicamente eterogenei, che si legano gli uni agli altri producendo quasi un’iterazione di racconti minimi. In bilico tra uno «sconfinare del corpo dal pensiero» (p. 13) e un «insistere teso / tra due misure» (p. 95), la mente è descritta come un’«intellezione » (p. 133) che fa capo al dominio del tempo, del buio, dell’ombra, del ricordo, del sonno/sogno, del rapporto tra vuoto e volume; il corpo, invece, è la materia, la natura, la terra, gli animali, l’infanzia, la storia.

Inoltre, attraverso i campi semantici della mente e del corpo, si può individuare un paradigma autunnale-invernale che governa le presenze e i tratti paesistici del libro: ci sono «le alte montagne di neve» che «risplendono» sul ricordo dei morti e pesano sulle spalle dei vivi (p. 57), gli ambienti domestici e contadini che sanno di terra bagnata, di foglie umide, di raccolti di pannocchie, di oggetti ferrosi accatastati nelle cantine, e in cui si parla quella lingua definita «’sto parlar lastra-degiass » («questa lingua lastra-di-ghiaccio», pp. 79- 81).

Con evidenti richiami ad alcune poesie di Benedetti (Umana gloria) e a certa lirica di ascendenza tedesca, Villata ricostruisce un mondo delle origini in cui trionfa un senso di asprezza e di profondità. L’esplorazione della terra è esplorazione del corporeo e scansione delle presenze materiali che la mente astrae e trasforma in elementi intellegibili (Sanno di cenere le labbra e sabbia…). Nel testo Ti vesti da gran sera… l’io inscena una personificazione della mente ed esalta la paradossale prigionia della visione astratta, vincolata a un pensare che si spinge oltre il corporeo, ma ne elude anche le possibili verità, facendo del suo vero una vanità mentale. Tra questo dubbio conoscitivo e le geometrie formali che vorrebbero conferirgli una sicura struttura lirica sta il carattere più incisivo di questo libro.

La capacità razionale di narrare tracce composite di realtà nel dissidio tra una tensione inquieta e un logico equilibrio dà a Vanità della mente – soprattutto nella forma di miscellanea d’autore tra testi editi e inediti – una tenace misura in cui il lettore si sente al riparo dagli usi anarchici e espettoranti dell’espressivismo contemporaneo.

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